Giuseppe Verdi: un goloso raffinato

Author: A cura di Andrea Grignaffini
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Giuseppe Verdi: un goloso raffinato. Una raccolta di saggi a cura di Andrea Grignaffini, Giampaolo Minardi, Corrado Mingardi, Mariangela Rinaldi Cianti, Raimonda Rocchetta Valesi. Parma, Tecnografica, 2001 per gentile concessione dell’editore.

Si è descritta la mensa di Sant’Agata a mio parere mitizzandola troppo. Così da giornalista e da ospite privilegiato, scriveva Giuseppe Giacosa nel 1889 all’apice della gloria e della ricchezza del Maestro: “Il Verdi non è goloso, ma raffinato; la sua tavola è veramente amichevole, cioè magnifica e sapiente: la cucina di Sant’Agata meriterebbe l’onore delle scene, tanto è pittoresca nella sua grandezza e varia nel suo aspetto di officina d’alta alchimia pantagruelica. Non c’è pericolo che per indisposizione del cuoco il pranzo abbia a scapitare. A Sant’Agata, oltre il titolare, sono cuochi emeriti il giardiniere, il cocchiere ed una domestica, sicchè: uno avulso non deficit alter. E notate che tutto questo apparato è essenzialmente ospitale. Il Verdi non è gran mangiatore, né di difficile contentatura. Sta bene a tavola come tutti gli uomini sani, savi e sobri, ma più di tutto ama veder raggiare intorno a sé, negli ospiti, la giocondità arguta e sincera che accompagna e segue le belle e squisite mangiate: è un uomo disciplinato e come tale crede che ogni funzione della vita debba avere il suo momento di prevalenza: è un artista e come tale considera, e con ragione, il pranzo quale opera d’arte.”

Un cuoco titolare a Sant’Agata e più di un supplente alla bisogna. Non certo “un gran cuoco”. Verdi non l’avrebbe sopportato. Scriveva con la consueta disincantata ironia alla contessa Clarina Maffei alla quale stava per mandare un mazzo di fiori del suo giardino: “Io amo molto i fiori, ma per averne di belli bisogna un Gran Giardiniere… Io detesto tutte le tirannie e specialmente le domestiche. Ora i Gran Giardinieri, i Gran Cuochi, i Gran Cocchieri sono i veri tiranni d’ una casa. Con questi, voi non siete più padrone di toccare un fiore del vostro giardino, di mangiare un semplice uovo coll’ insalata, di adoprare i vostri cavalli, se piove, o se fà troppo sole! etc. etc. etc… Nò nò: di tiranni in casa basto io solo, e so ben la fatica che io mi costo!!! Per altro io sono un tiranno che finisce a far sempre quello che non voglio… Ne volete una prova? Io scrivo opere… è la cosa che vorrei fare meno di tutte!!” E sembra proprio che mangiare un semplice uovo con l’insalata fosse una sua sana, ragionevole passione. Questo non significa che in fatto di cuochi non fosse esigente. Nel 1878 si rivolse a Luigi Bizzi, un reggiano che era stato suo cameriere: “Sappimi dire se a Reggio si può trovare un buon cuoco. Bada che io non voglio che sappia cucinare bene o male tre o quattro piatti casalinghi, ma voglio assolutamente un cuoco, che sia un vero cuoco. Spendo quello che vale, ma, ripeto, che sia un cuoco”. E la scelta dei cuochi risultò spesso per Verdi un grattacapo. Nel marzo 1875 si rivolse da Genova a Giulio Ricordi: “Non vi parlerò oggi né di arte né di artistico, ma … di cuoco. Se quel tale che si dice essere abile manipolatore di cibi è tuttavia libero, parlategli e soprattutto vogliatevi dar la pena di domandare informazioni schiette, sincere, serie, serissime. Non vi è da fidarsi a loro. Per es. quello che ho preso or ora, come gli altri di prima, tutti si dicevano grandi manipolatori etc. e non erano che cattivi bruciapentole”. Scendendo poi in particolari circa l’ammontare del salario e la quantità del vino da assegnarli, concludeva: “Se la sua cucina non piace dopo quindici giorni lo rimanderei a Milano (s’intende bene) a mie spese. Ma dal momento che vi prendete quest’incarico occupatevene seriamente perché si tratta del pane da mangiare…. Poesia, idealismo, tutto va bene …ma non si può far a meno di mangiare!

P.S. Domani vi scriverò forse di cose più alte, più poetiche… ma forse ben inutili”.

Chi visita la villa, intatta nel verde del parco lussureggiante, e ha la fortuna di entrare nella cucina, ha l’impressione che essa sia una vera “officina d’alta alchimia pantagruelica”. Luccicano i rami delle cento pentole, delle casseruole, degli stampi, delle forme, dei bricchi, uno svariato meraviglioso campionario come oggi è raro vederne. E l’acquaio capace, i tavoli ampi e la madia o credenza che è un grande armadio di bella noce e stile parmigiani, con i motivi classici alla Petitot. La stufa forse non è più quella del 1864 che il Maestro s’era fatto mandare da Parigi per ferrovia. Ne aveva scritto all’amico Opprandino Arrivabene perché ne sbloccasse l’invio: “Le strade ferrate sono fatte per rompere i c… alla povera gente, e rompere anche gli oggetti che trasportano. Mi sono fatto spedire da Parigi una cucina economica diretta a Torino per Borgo San Donnino. Sissignore che all’amministrazione della Ferrovia di Torino le salta in capo di ritenermi quest’invio, e così sono costretto a pregarti d’andare a rilevarlo, e mandarmelo a Borgo S. Donnino. Fammi questo favore che, oltre essertene grato, sarò anche tuo debitore di fr. 44, 50 oltre il facchinaggio e ritiro. Ciò per rompere i c…”.

Nella sala da pranzo, poi, pure essa rimasta tale e quale, le cristalliere sono ricolme di argenteria e porcellane. C’è anche il samovar portato dalla Russia. Le posate sono dell’Orfèvrerie Christofle di Parigi, acquistate nel 1867 quando Verdi abitava in Avenue des Champs Elisées, oltre cento pezzi pagati 1562, 30 franchi più 5 di mancia: si conservano ancora il preventivo, la fattura e la lettera di Giuseppina che lamenta come i coltelli da tavola siano 17 invece di 18. Su ogni pezzo è incisa elegantemente la lettera V che sormonta due G (Giuseppe e Giuseppina) intrecciate. Ma dal famoso negoziante parigino che aveva succursale anche a Carlsruhe, i coniugi Verdi si fornirono più di una volta nei loro soggiorni francesi anche per il prezioso vasellame. Tra esso spicca il servizio della manifattura di Sèvres bianco e turchese filettato d’oro. I mobili sono scuri, severi, con intagli eclettici che li ingentiliscono, segno di un’agiatezza notevole eppure non pretenziosa. Si ricorda come ogni sera il Maestro e Giuseppina si cambiassero d’abito per la cena, che spesso si concludeva con una breve passeggiata o, se c’erano ospiti, con una partita a bigliardo o a carte. A carte Verdi non amava perdere, per cui più volte lo si favoriva.

Rari e illustri gli ospiti: i Ricordi, Arrigo Boito, Franco Faccio, il soprano Teresa Stolz, Emanuele Muzio e pochi altri nella sua vecchiaia fiorente. Talvolta era a colazione il sindaco di Busseto, come appare dagli inviti stringati e cordiali che ci sono pervenuti. Questo al sindaco Donnino Corbellini: “Il pavone ch’ella ha avuto la bontà di favorirmi è di già nel numero dei più, e Domenica ad un’ora farà la sua comparsa trionfale. Desidero che sia un’occasione ond’Ella cominci a trovar la strada di S. Agata per venire di tratto in tratto a mangiare una zuppa con noi. L’aspettiamo dunque Domenica, e senza cerimonia alcuna. Ad un’ora si mettono i piedi sotto la tavola.”

Il pavone gliel’aveva regalato il Corbellini un giorno che Verdi era tornato dalla caccia a mani vuote: così dice l’Abbiati nella sua fondamentale biografia. Perché Verdi era cacciatore, non accanito se nei ricordi di famiglia si tramanda che amasse più camminare sugli argini del Po con il cane appresso che sparare. Delle sue prede ci resta in villa un fagiano impagliato, a meno che fosse uno di quelli che egli allevava e regalava agli amici.

Durante il 1860 aveva invitato più volte Angelo Mariani, il famoso direttore d’orchestra. “Mi dicono che vi siano molte anitre selvatiche sui boschi del Po. Andrò presto a farvi visita e vi saprò dire qualche cosa” (15 marzo). “Vado a caccia alla mattina, dormo, mangio e non faccio nulla: e tu che fai? Quando vieni? La muta delle quaglie è all’ordine ed a momenti se ne prenderanno a dozzine con le reti, e qualcuna col fucile, se sapremo tener diritto. Intanto tutte le mattine si viene a casa con 8 o 10 uccelli tra piccoli e grossi e senza andare lontano da casa che qualche tiro di fucile. Luccardi, un eccellente amico mio, è il mio compagno di caccia, e domattina andremo per la prima volta al bosco e torneremo carichi di tortore, merli, stormi, Gallus petri, ed anche pernici, che ne dici? Vieni dunque…” (9 agosto). “Mi alzo alle cinque, vado alla muta delle quaglie, sparo una qualche fucilata alle quaglie che non sono tanto imbecilli d’andare nella rete; si fa dopo colazione” (26 agosto). Il caffè era d’obbligo, a lui piaceva forte e abbondante. E al caffè dovette in parte il ristabilirsi da uno dei primi segni dell’apoplessia. Era a Genova, all’inizio di gennaio 1897; Giuseppina era entrata nella camera e l’aveva trovato come morto sul letto. Avvertita la cugina Maria, costei avrebbe voluto chiamare il medico. Giuseppina s’era opposta mentre Verdi riapriva gli occhi e con gesti chiedeva di scrivere. Vergò tremolante sopra un foglio la parola “caffè”. Maria volò in cucina, fu fatto un caffè potentissimo che aveva, come ci racconta Abbiati, “rimesso in moto l’organismo semiparalizzato”. L’amico ingegner De Amicis fu pregato una volta di pagargli la spedizione di ben 25 chili di “caffè Porto Rico” da Romanengo.

Ma torniamo agli amici, quelli di giovinezza e maturità, Mariani, il librettista Francesco Maria Piave, lo scultore Vincenzo Luccardi, il conte Opprandino Arrivabene e l’ alienista (così allora si chiamavano gli psichiatri) Cesare Vigna al quale dedicò La Traviata: con loro in villa tutto era più semplice, più spontaneo, meno formale. Per ritrovare un altro sindaco di Busseto bisogna arrivar proprio a quel 1897, al tempo che il Maestro rimessosi in discreta salute lavorava ai Pezzi Sacri. Il primo cittadino bussetano, capitato a Sant’Agata con una richiesta di raccomandazione relativa al ginnasio, era stato trattenuto a pranzo dove gli fu servito un piatto di culatello e melone. Si scusava però Verdi di non potergli far compagnia perché egli non sopportava l’odore del melone, che anzi a volte gli provocava passeggeri svenimenti.

Tra gli ospiti, finchè visse, talvolta era Antonio Barezzi, il caro signor Antonio, “padre e benefattore ed amico” per usare le parole di Verdi che gli riservò affetto e venerazione mai venuti meno. Lo incontriamo alla tavola del Maestro nel racconto dell’editore musicale Leon Escudier che era venuto in Italia a portare a Verdi la Legion d’ Onore conferitagli da Napoleone III: “Ci siamo messi a tavola; inutile aggiungere che fu papà Antonio a tenere le fila della conversazione, e che Verdi ne fu l’argomento, con gran disperazione del maestro che, stanco di lottare, rinunciò a farlo tacere”. Al momento del dolce, fu tirata fuori la croce della Legion d’Onore: Verdi, dopo un attimo di emozione, stringe calorosamente la mano ad Escudier. E Barezzi? “Il suocero è rimasto sbalordito. Voleva parlare, ma non riusciva ad articolare una parola; agitò le braccia, si alzò, si gettò al collo di Verdi, se lo strinse al petto, l’abbracciò e pianse come un bambino”. Poi chiede in prestito la decorazione e, con la promessa di restituirla il giorno dopo, scappa via per mostrarla a tutta Busseto.

Quando erano in viaggio e soggiornavano lontano da Sant’Agata, l’agiatezza per i coniugi Verdi era pure d’obbligo, se non superiore. Fornisce un esempio rivelatore il carteggio con Cesarino De Sanctis. Andranno a Napoli a fine 1872 per Aida e occorre sistemarsi o in albergo o in appartamento. Queste son le richieste perché Verdi non rinunci, come scrive Giuseppina, a “tutti i suoi comodi e la sua piena libertà”:

“1° Si può avere un bell’appartamento, bene ammobigliato, letti puliti, non lontano dal teatro, non in località troppo rumorosa, ma bella ed ariosa?

2° Ammesso che vi sia quest’appartamento quanto costerebbe mensilmente? beninteso all’incirca.

Sapete che ci vogliono due stanze da letto padronali, sala da ricevere, da pranzo, anticamera, stanza per la cameriera, che possa servire anche da lavoro – camera per il cameriere – camera per il cuciniere, cucina e qualche altro locale di comodo per bauli etc. Cabinets d’aisance puliti e all’inglese, infine un appartamento confortable, altrimenti non è da parlarne. Importa saperne anche il prezzo approssimativo, per vedere se vi è convenienza di darsi il pensiero di un ménage, perché capirete bene io non vorrei far la fatica, e che Verdi avesse poi ragione di regretter l’albergo come spesa e come benessere”. Andranno invece all’albergo, non all’Hotel de Russie a Santa Lucia dove era, come dice il De Sanctis, “cucina da contentare il difficile e conoscitore Maestro”, ma all’albergo delle Crocelle dove fu eseguito per la prima volta il 1° aprile dell’anno dopo lo splendido Quartetto in mi minore, capolavoro non certo irrilevante d’un inatteso Verdi cameristico.

A tavola il Maestro si faceva delle belle “pacciatine”, come dice in milanese Giuditta Ricordi, moglie di Giulio che se ne augurava “una prossima… ma di gusto di quelle che si fa lui quando sta bene”.

Ma spesso non stava bene, per un quasi costante mal di gola unito a febbre o mal di stomaco, disturbi psicosomatici che per altro non gli impedirono di mantenersi forte come una quercia fin oltre gli ottant’anni. Così scriveva a Piroli il 23 dicembre 1885: “…voi potrete fare allegramente il Cenone della vigilia, mangiare i Maroben ed il Cappone nel natale ed il Pollino al 1° d’anno. Non so se noi potremo fare altrettanto perché io ho un po’ di tosse, e la Peppina ha pure la tosse e molto forte. Speriamo che passerà, o almeno diminuirà”. Maroben è voce cremonese e sta per cappelletti, quelli col ripieno di solo uova, formaggio e sapori, come si fanno d’altronde nel Bussetano. Il pollino è ovviamente il tacchino.

La sala da pranzo di Sant’Agata, prima di divenire quale noi la conosciamo, aveva trovato posto in villa in più luoghi durante la costruzione. C’è a tale proposito una bella lettera della Strepponi alla Maffei del 1867. Per rendere la villa “una casa un po’ meno colonica, Verdi si trasformò in architetto, e non ti posso dire, durante la fabbrica, le passeggiate, i balli dei letti, dei comò e di tutti i mobili. Ti basti che, eccettuato in cucina, in cantina e nella stalla, noi abbiamo dormito e mangiato in tutti i buchi della casa. Quando s’agitavano le sorti d’ Italia, e che Verdi con altri di quei signori portavano in tasca gli Stati al Re Vittorio, Guerrieri, Fioruzzi, ecc., vennero a S. Agata ed ebbero l’onore di pranzare in una specie di atrio, od andito, in presenza di diversi nidi di rondinelle, che uscivano ed entravano tranquillamente da una inferriata per portar cibo ai loro piccini. Quando volle Iddio la casa fu finita, e t’assicuro che Verdi diresse i lavori bene e forse meglio d’un vero architetto”.

La vita in villa gli permetteva di far buon uso dei prodotti della sua campagna, una sterminata distesa di poderi, l’uno contiguo all’altro o quasi, nel comune di Villanova d’Arda e in quelli limitrofi, per un totale che superò i mille ettari. Colture, boschi, allevamenti, un mulino, un caseificio amministrati con passione, competenza, oculatezza e interesse per le tecniche innovative di irrigazione e concimazione.

Il pollaio di S. Agata, dapprima amministrato dal padre, c’è ancora, è una costruzione non certo minuscola. Ma a rifornire la dispensa e la ghiacciaia a neve posta in giardino, c’erano anche i periodici “pendizi”, o onoranze, cioè una determinata quantità di prodotti dei poderi da portare ogni anno, in date prestabilite, al “Padrone”.

Per fare un esempio, nel 1875/76 dal podere Stradello Casa Vecchia i conduttori Bocchi dovevano per contratto somministrare “al Locatore Padrone e alla casa di lui ogni anno: Avena metri cubi 10, paglia steri 10, Uva chilogrammi 800 a scelta del Locatore, Pollastre paia 8 del peso di chilogrammi 2 al paio nei mesi di Luglio e di Agosto a richiesta del Locatore. Uova ventine dodici, metà a Pasqua di Risurrezione, metà della luna d’Agosto. Capponi paia 8 metà a S. Martino e metà a Natale del peso di chilogrammi tre al paio. Tacchini numero due, l’uno a San Martino, l’altro a Natale del peso chili quattro ciascuno. A tali somministrazioni, per norma di Registro, si attribuisce un valore di lire italiane effettive 114”.

Quando i coniugi Verdi erano a Genova per trascorrere l’inverno, da Sant’Agata arrivava tale ben di Dio. Ecco in proposito, del 23 novembre 1871, una lettera del suo amministratore Mauro Corticelli: “Sta bene abbiate ricevuta la cassetta col tacchino, cappone e due bondiole, e sabbato prossimo spedirò altra cassetta con due capponi preparati per vostra regola, avendo comperato nella passata settimana tre paia di capponi. In giornata nella caponaja di casa ce ne sono 22, più un tacchino e 4 pollastre. Dunque vedete bene che potremo lasciare come consuetudine per Natale, uno per la Tonnina, uno per la Giovanna, e due per Guerrino: desideravo però sapere se devo spedire sempre regolarmente da Guerrino ogni settimana due capponi, oppure se dovrò portare un certo numero di vivi a Genova, come si fece nel passato anno, ma credo con poca buona riuscita… I Ch. 20 lardo di perfetta qualità saranno acquistati, e vedrò se sarà possibile colla cassetta che manderò sabbato coi due capponi, mandare ancora Ch. 6 lardo, riservando il rimanente di portarlo io, Guerrino dice che cercherà subito i tre salami, e ritiene di trovarli perfetti come desiderati; manderò ancora l’uva nera in tralci, la quale si è mantenuta benissimo”.

Sempre in quel 1871, a fine marzo, Corticelli aveva fatto un’ altra spedizione: “Vi spedisco una cassetta con 6 bottiglie del vostro vino particolare, cavato dal tino chiuso e così lo asagerete prima di venire a casa; mi direte poi se lo trovate di vostra soddisfazione, e buono come venne da me giudicato”. Forse è lo stesso vino di cui aveva scritto il 4 marzo: “Ieri sera ho imbottigliato il vino bianco che è perfetto da non desiderare di meglio; si sono fatte 104 bottiglie, e più riempito la damigiana che conterrà altre 14 bottiglie circa. Il vino rosso che è nelle bottiglie, eguale a quello venuto a Genova, ha lo stesso difetto dell’ultimo imbottigliato a Genova che ora beve la servitù, un poco il punto”. Una punta, cioè, di acidità o cattivo sapore.

L’11 marzo in un’altra lettera: “Ho cavato il vino bianco dal piccolo vasello puntelato; è molto diminuito nel bollire, poiché di una brenta che il vassello contiene, si è arrivato estrarne poco più di 3/4; per riempirlo di nuovo, dopo averlo ben bene pulito, oltre alla damigiana di vino bianco tenuto espressamente, ho dovuto sturarne altre 5 bottiglie. Il vino è sortito chiarissimo come l’acqua; è buono e tiene più al duro che al dolce; al mio gusto preferisco il bianco portato a Genova a questo, ma ora travasato verrà migliore, avendolo levato da quel deposito di fondo, che sembrava calce e moltissimo. Oggi occupati gl’uomini del giardino per la piantagione, ho rimesso a domani domenica cavare il vino rosso nel tinello coperto, preparando prima tutto, onde il lavoro sollecitamente sia fatto di giorno, senza far restare il vino allo scoperto: e domani scriverò come questo vino sarà riuscito”. Tutti questi minuti particolari erano richiesti dal Maestro lontano con frequenza quasi giornaliera.

Del vino che si produce a Sant’Agata Verdi è sempre ben attento. Al fattore Marenghi scrive nell’ottobre 1898, cioè a 85 anni: “Ripeto ancora di travasare il vino della prima schiacciata e di cavare il mio che resta ancora nei tini prima del nostro arrivo”. Il suo vino lo mandava in regalo all’ ospedale di Villanova che lui stesso aveva fatto costruire e che manteneva dal 1888. Con una raccomandazione però, da buon parsimonioso qual era: “Caro Signor Persico, mando le 200 in numero di bottiglie di vino rosso. Raccomando a suo tempo la restituzione delle bottiglie”.

Di vino ce n’era in abbondanza anche per la servitù, abbondanza regolamentata. Al Bizzi, che già abbiamo incontrato e che gli aveva trovato un nuovo cuoco, rispondeva così nel 1871: “Speriamo che sia veramente discreto cuciniere l’uomo che proponi, e non abbia coglionerie per la testa… Avverti bene che a Genova non vi è la cantina di Sant’Agata e quindi quando siamo a Genova vi è l’abitudine di dare 4 litri di vino per settimana. Vino buonissimo e sceltissimo”. A Corticelli poi ingiungeva, riguardo ad un suo lavorante: “Che Mazzega beva pure quanto è conveniente, ma spero che non le avrai dato del vino imbottigliato or ora per me. Se non ci fossero altre bottiglie, allora sarebbe da mettere a mano (senza imbottigliare) un piccolo vasello. E tutte le mattine andare con Mami in cantina e cavare dal vasello quelle bottiglie che possono abbisognare nella giornata”.

Si pigiava a Sant’Agata, ma anche a Busseto nel suo palazzo, ora palazzo Orlandi, e lì ricevette uno sgarbo, uno fra i tanti, dai suoi concittadini. Verdi se ne lamentava nell’ottobre 1861 con l’avvocato Giuseppe Piroli, l’amico d’infanzia divenuto deputato: “Il mio fattore vi dirà d’un atto non so, se illegale o villano usato contro di me. Mentre i miei paesani nella corte della mia casa di Busseto stavano pigiando uva, per ingannare il tempo cantavano. La Guardia Nazionale chiamava i Carabinieri ed uniti imponevano silenzio a questi poveri diavoli. Avvi una legge che proibisca di cantare in casa propria? Ed esistendo pur questa legge, non devesi egli avvertire con un po’ d’urbanità prima d’imporre con la forza armata? Ditemi cosa si può fare, dopo d’aver ben bene interrogato il fattore. Io me ne sono stomacato, e mal volentieri digerisco questo affronto (non è il primo) de’ miei amabilissimi concittadini. Scrivetemi subito”.

Ma Verdi non beveva certo sempre il suo vino. Anzi lo conosciamo come di difficile contentatura e fine gustatore. In vista del primo viaggio a San Pietroburgo per La forza del destino, il 1861, Giuseppina scriveva a Corticelli, allora segretario della famosa attrice Adelaide Ristori, lei pure impegnata nella capitale russa: “Ci vorranno i tagliatelli e i maccheroni ben perfetti per rendere Verdi di buon umore in mezzo al ghiaccio e alle pelliccerie… se la Ristori credesse soperchiare, predominare colle tagliatelle, Verdi conta eclissarla col risotto che per verità sa fare divinamente. Poiché, ad onta delle tue peregrinazioni e dell’entourage di tanti Gigioni, ti conservi quel che sempre fosti, eccellente amico, approfittiamo volentieri delle tue offerte e ti preghiamo di fare per noi pure alcune provviste. Noi ci fermeremo in Russia circa 3 mesi, cioè dal 1 Novembre a tutto gennaio 1862 e saremo a mangiare in quattro, due Padroni e due persone di servizio. Se è indispensabile l’Interprete e se vi è l’abitudine di dargli da mangiare, invece di quattro saremo 5. Potresti fare per noi in proporzione al numero (tenendo cioè la regola in proporzione al numero delle persone) le provviste che fai per la Ristori dei seguenti generi: Riso, Maccheroni, Formaggio, Salumi e quegli oggetti che sai non si trovano in Russia o si trovano ad un prezzo esorbitante. Quanto poi al vino ecco il numero delle bottiglie e le qualità che Verdi desidererebbe:

 

1100                 bottiglie piccole Bordeaux per pasteggiare

20                     ”                 Bordeaux fino

20                     ”                 Champagne

 

Forse ti sarà di minor incomodo fare provviste più abbondanti per la Ristori e cederci la porzione a lei superflua e per noi necessaria. Io aggiusterò poi teco i conti arrivando a Pietroburgo, essendo salita dal grado di cantante a quello di massaia…”.

Bordeaux e Champagne, niente male per il contadino di Sant’Agata, viziato, o meglio scaltrito da Parigi. Il riso però è cosa tutta sua, verdiana. Infatti nella tradizione della modesta famiglia originaria roncolese, tradizione mantenuta anche a Sant’Agata, quando invece i benestanti Carrara lo considervano cibo solo quaresimale, il riso era consumato e amato da lui ad ogni stagione.

Nel settembre 1869 Giuseppina scriveva di Verdi a Camille Du Locle, l’impresario dell’Opéra: “il est passè maitre pour le risotto”, e a lui che aveva chiesto per un amico “gourmet” la ricetta, “celle du risotto”, rivelava che Verdi era accanto a lei per dettargliela: “J’ecris sous la dictée meme de Verdi”. Du Locle avrebbe voluto anche la ricetta dei ravioli, ma la “cuisinière”, che li faceva “si biens”, se n’era andata. Ecco la ricetta del risotto per quattro persone: “Mettete in una casseruola due oncie di burro fresco; due oncie di midollo di bue, o vitello, con un poco di cipolla tagliata. Quando questa abbia preso il rosso mettete nella casseruola sedici oncie di riso di Piemonte: fate passare a fuoco ardente (rossoler) mischiando spesso con un cucchiaio di legno finchè il riso sia abbrustolito ed abbia preso un bel color d’oro. Prendete del brodo bollente, fatto con buona carne e mettetene due o tre mescoli (deux ou trois grandes cuilleres à soupe) nel riso. Quando il fuoco l’avrà a poco a poco asciugato, rimettete poco brodo e sempre fino a perfetta cottura del riso. Avvertite però, che a metà della cottura del riso (ciò sarà dopo un quarto d’ora che il riso sarà nella casseruola) bisognerà mettervi un mezzo bicchiere di vino bianco, naturale e dolce: mettete anche, una dopo l’altra, tre buone manate di formaggio parmigiano grattato rapè. Quando il riso sia quasi completamente cotto, prendete una presa di zafferano che farete sciogliere in un cucchiaio di brodo, gettatelo nel risotto, mischiatelo, e ritiratelo dal fuoco, versatelo nella zuppiera. Avendo dei tartufi, tagliateli ben fini e spargeteli sul risotto a guisa di formaggio. Altrimenti mettetevi formaggio solo. Coprite e servite subito”.

C’è una caricatura di Melchiorre Delfico in cui Verdi a Napoli col grembiale del cuoco tiene in mano una fumante casseruola forse di risotto, mentre il barone Genovesi presso il fornello è intento forse ai suoi maccheroni: mi piace immaginare una gara culinaria tra Nord e Sud, certo finita alla pari. O forse son solo maccheroni quelli della vignetta, i maccheroni che pure a Verdi piacevano fin dai tempi milanesi dei Lombardi, quando in un tenero bigliettino scriveva alla contessa Giuseppina Appiani: “Si mangiano o non si mangiano questi maccheroni? Io desidero innapoletarmi a Milano”. E maccheroni gli inviavano nell’aprile-maggio 1858 gli amici napoletani.

Per tornare al risotto ecco ancora Giuseppina a papà Barezzi da Torino il 19 febbraio 1861, dove si è appena aperto il primo Parlamento Italiano e Verdi è andato al Teatro Regio senza riuscire a conservar l’incognito: “… riconosciuto, si cominciò a gridare Viva Verdi e tutti dai palchi ed in platea si alzarono per salutare il Gran Compositore delle Roncole! Se sapessero poi come compone il risotto alla milanese, Dio sa quali ovazioni gli pioverebbero sulle spalle! Gli ho raccontato questi fatterelli perché so ch’Ella, mio eccellente Sig. Antonio, non è del parere del Sapiente, che dice del suo Ecclesiaste: Vanità, ecc. Le ovazioni a Verdi l’hanno sempre fatto piangere. Fuori il fazzoletto perché son persuasa ch’Ella in questo momento bagna il cassettino delle spezie”.

Un’altra tradizione bussetana natalizia ci viene confermata da Giuseppina in una lettera del 1871 al canonico Giovanni Avanzi, il sacerdote patriota bussetano amico del Maestro. Ora che Lei s’ era un poco rimessa, avrebbe potuto “mangiar gnocchi e lumache per la Vigilia di Natale e celebrar così le feste solenni con la bocca in moto ed i piedi sotto la tavola”.

Verdi, lontano da casa, aveva poi talvolta nostalgia di polenta. Di fronte a tanti progetti europei ed egiziani, che lo preoccupano, nel 1870 si augurava che tutto finisse “in una polenta a Sant ’Agata”, per ritrovare la pace e i sapori della sue origini. Le sue origini di figlio di un oste e di una ostessa, sicuramente brava in cucina. Dell’osteria delle Roncole, don Amos Aimi e Angela Leandri hanno pubblicato una lista di spesa per un pranzo risalente al 27 settembre 1828 in piena adolescenza verdiana. L’occasione fu quella della festa patronale della vicina Spigarolo e i commensali furono presumibilmente cinque sacerdoti intervenuti alla sacra funzione e due laici, come era avvenuto ai primi di quello stesso settembre e con la stessa spesa per la festa della Madonna dei Prati. Furono messi in conto da Carlo Verdi “Carne di Manzo e Vitello”, “Nombolo vecchio”, due “polastre” e un “pito” (cioè un tacchino), “formaggio buono”, “butirro fresco” sale, “oglio”, aceto, “ova n° 8”, “spezie fine”, “limoni n° 2”, due soldi di capperi e due soldi di “Arachide”, verdura, insalata, cipolle e “Carottole, Tomates, Bonerbe”, pane e vino, caffè, zucchero e “Frutta per la Tavola” per un totale di Lire 100. Non si fa cenno alla pasta e quindi sono ipotizzabili dei passatelli in brodo di uova e formaggio, per la cui preparazione i buoni ingredienti ci sono proprio tutti. Seguirono il lesso con le salse e l’arrosto con l’insalata prima di un dessert di frutta e del caffè.

Ma torniamo ai vini, quelli italiani. Nel 1864 a dicembre Verdi confessava all’Arrivabene: “Buono l’Asti (intendi vino) comprato dal Cova se non chè me n’ha mandato d’una qualità così detta Vino Secco che non mi piace. Presto presto gli scriverò di mandarmi altre bottiglie di quel vino ma lo voglio dolce e spumante”. E allo stesso nell’agosto del 1869: “Hai preso ancora vino da quell’Oudar di Asti che ti mandò quell’eccellente Cortese d’Asti e non so quale altra qualità che bevemmo insieme? Non ti faccia meraviglia se parlo di bere: d’estate non si desidera altro”. E “buoni gnocchi” gli augurava a fine 1885, così “alla buona come i contadini delle Roncole”.

Quando Verdi dal 1880 cominciò a frequentare per cura Montecatini, già si era convertito al vino toscano, non rinunciando tuttavia anche nella cittadina termale alle bottiglie di Champagne. Una volta se ne fece spedire colà da Cremona sei bottiglie di Moét & Chandon.

Il vino toscano arrivava a Sant’Agata mandato dal suo albergatore, Napoleone Melani, che una volta non l’accontentò proprio: “Ricevetti, non la lettera, ma frutta ch’Ella mi inviò, e ve la ringrazio sentitamente. Anche il vino di cui Le parlai, m’è arrivato senza sapere da dove, né da chi! L’ho tenuto chiuso per discrezione poi mi sono deciso ad aprire il fusto. Conteneva circa 100 litri di un vino dolce, rosso e non pasteggiabile perché dolce. S’Ella può mettere in regola questa faccenda, l’autorizzo a farlo e gliene sarò obbligato. Le ripeto, un fusto di vino troppo dolce ed è vino buono per chi ama il dolce, ma è vino comune. Scusi la noia…”

Che il vino di Toscana gli piacesse già lo si sapeva da Teresa Stolz che per conto del Maestro s’era occupata nel settembre del 1875 a Firenze d’un campionario di Chianti. Ma sul Chianti non aggiungo altro, perché una bella documentazione ce la dà Mariangela Rinaldi nelle pagine che seguono.

Chianti beveva pure a Genova. Se pranzava al ristorante Concordia, ne comandava un fiasco e, se ne avanzava, traeva un pezzo di carta, vi scriveva sopra il suo nome e l’infilzava al collo del fiasco, dicendo al cameriere: “Domani sia lo stesso Chianti”. In quel ristorante s’era innamorato della cucina genovese, gnocchi conditi con il basilico, cappon magro e lumache. Queste ultime gliele aveva cucinate a Palazzo Doria il Maestro De Ferrari, vincendo da allora per sempre le riserve dei coniugi Verdi. L’amico Giuseppe De Amicis gli forniva poi il Paqueret, il vino spagnolo di cui era importatore a Genova. Le lettere di e a De Amicis sono ricche di notizie gastronomiche, vini e liquori soprattutto, dal solito Champagne al Marsala, al Porto, al cognac, al “Rhum vero Giamaica”, al “Kuraçao”, alla “Chartreuse Jeune” che il Maestro richiedeva. Che in casa Verdi non mancassero, fin dai tempi del matrimonio con Margherita, tali bevande, per così dire, corroboranti, lo si sapeva da una richiesta a papà Barezzi: “Mi faccia il piacere mandarmi:

1 Bottiglia Muscato di quello che ho bevuto questa mattina

1 Bottiglia Rhum

1 Bottiglia Malaga

Faccia nota di tutto….”

Di corroboranti Verdi ebbe bisogno davvero nel pieno dei massacranti “anni di galera”. Muzio scriveva a Barezzi il 21 aprile 1845: “Il Signor Pasetti gli ha mandato alcune bottiglie di un vino di 20 anni e così bevendone un bicchierino tutte le mattine potrà rinforzarsi sempre più lo stomaco …”. Tanto allora Verdi si era fatto emaciato e sparuto che circolò la voce che fosse morto, voce subito raccolta dai giornali.

Qualcosa s’è visto riguardante i salumi. Per trovare nominato il culatello per la prima volta, bisogna rifarsi alla gioventù milanese del Maestro, proprio nei giorni dello sfortunato esame al Conservatorio. Al Seletti che lo ospitava, Antonio Barezzi ne aveva inviati due da Busseto, ma uno s’era perso, con grande disappunto, per la strada. Come rischiavano d’andar confiscati nell’aprile del 1847 il salame e le spalle del Barezzi che Emanuele Muzio portava con sé a Milano, dove l’attendeva Verdi fresco fresco del successo fiorentino di Macbeth: “Il viaggio fu felicissimo ed il salame e le spalle sono passati trionfanti in mezzo a tutti i gabellieri, i quali non ci hanno molestato. Alla Carossa però, eravi un cane che annusava dietro del legno, e sicuramente se non facevamo presto a partire ei ci faceva la spia”.

Fra i salumi verdiani meritò un posto speciale la spalla di maiale, meglio dire spalletta, tipica di San Secondo Parmense.

La prima volta che viene citata è il maggio 1843. Mentre Verdi è a Parma dove si è reincontrato con la Strepponi e il “loro” Nabucco vi ha trionfato, promette all’amico milanese Luigi Toccagni di raggiungerlo presto portando con sé “la spalletta di San Secondo”.

Ne conosco almeno tre di spedizioni. La prima al conte Arrivabene, dell’aprile 1872: “Io non diventerò feudatariio della Rocca di San Secondo ma posso benissimo mandarti una spalletta di quel Santo. Anzi te l’ho già spedita stamattina colla ferrovia. Quantunque la stagione sia già un po’ avanzata spero la troverai buona, ma devi mangiarla subito prima che arrivi il caldo. Sai tu come va cucinata? Prima di metterla al fuoco bisogna levarla di sale, cioè lasciarla per un paio d’ore nell’acqua tiepida. Dopo si mette al fuoco entro un recipiente che contenga dell’acqua. Deve bollire a fuoco lento per sei ore, poi la lascerai raffreddare nel suo brodo. Fredda che sia, vale a dire circa 24 ore dopo, levala dalla pentola, asciugala e mangiala”.

La seconda alla Stolz è dell’agosto 1890: “Unitamente a questa mia riceverete dalla Ferrovia una cassetta contenente due spallette uso San Secondo, che noi mandiamo una per voi e una per la famiglia Ricordi. Scegliete quella che volete. Badate che per cuocer bene la spalletta bisogna:

1) Metterla nell’acqua tiepida per circa 12 ore onde levargli il sale.

2) Si mette dopo in altra acqua fredda e si fa bollire a fuoco lento, onde non scoppi, per circa 3 ore e mezza, e forse 4 per la più grossa. Per sapere se la cottura è al punto giusto, si fora la spalletta con un curendets e, se entra facilmente, la spalletta è cotta.

3) Si lascia raffreddare nel proprio brodo e si serve. Guardate soprattutto alla cottura: se è dura non è buona, se è troppo cotta diventa asciutta, stopposa. Ho detto, ho detto, e ora prendo fiato!”

Ho riportato entrambe le istruzioni per le varianti che presentano.

Oltre a quella per la Stolz, il 12 agosto 1890 viaggiò dunque alla volta di Milano una spalletta anche per la famiglia Ricordi, che diede materia al piccolo scherzo che Giulio fece al Maestro. All’editore che gliene aveva richiesto il prezzo, Verdi aveva risposto di buon umore il 19 agosto: “Caro Giulio, grande abbondanza di majali … ma le spallette sono caruccie! Prezzo L.100.000 (centomila). Saluti. G.Verdi”. Tre giorni dopo Ricordi comunicava l’“inaugurazione” della spalletta e allegava alla letterina seguente la burlona fattura quietanziata di cui do qui la riproduzione fotografica:

“Milano 22 agosto 1890

Ill. Maestro, Già… Ella riesce bene in tutto… perfino nelle spallette. Ho il piacere di avvertirla che jeri fu solennemente inaugurata, fra l’entusiasmo generale !… ed i bis furono innumerevoli ! – A dire il vero il conto lo trovai un poco… salato: mais a tous seigneur, tout honneur!!… e senz’altro ho saldato il conto, come risulta dall’acclusa ricevuta! – Però ripeto ugualmente vivissimi ringraziamenti per l’invio fatto. E con tutto ossequio mi segno di Lei devo.mo Giulio Ricordi.”

Come si vede, l’editore aveva avuto lo spiritoso pensiero di far stampare nella sua tipografia una finta ricevuta della “Privilegiata Fabbrica di spalle e spallette di majali… marca G.V.”, munirla di centesimi 10 di bollo e apporvi addirittura la firma contraffatta di Verdi. Ne avrà sorriso il vecchio compositore intento in quei mesi alla creazione di Falstaff: “Tutto al mondo è burla! L’uom è nato burlone”, come canta la dolceamara fuga finale dell’opera.

La burla di Giulio Ricordi ha tratto in inganno, alcuni anni fa, gli studiosi dell’American Institute for Verdi Studies della New York University che ne hanno tratto la seguente conclusione. Il documento rivela “il felice avvio di un nuovo business di Verdi consacrato alla vendita di salumi preparati nella fattoria del compositore con il marchio G.V”. Guarda un po’ che bella cantonata. Ci mancava altro che gli americani credessero Verdi un salumaio!

La spalla è anche presente in una serata importante a S. Agata. Lasciamocelo raccontare dall’Abbiati: “Ai primi d’ottobre 1892, col teatrino dei pupi nel sacco da notte, Boito e Giulio giunsero in villa. Come aveva sognato Verdi quasi per ridere, ma invece era una cosa seria, nel salone del biliardo veniva così rappresentata per la prima volta, e all’insaputa di tutti, la commedia di Falstaff. Si fecero le ore piccole e si consumarono una sull’altra due spallette all’uso di San Secondo. Innaffiatissime, come voleva la Giarrettiera”. Atto I, Parte prima. L’interno dell’osteria della Giarrettiera. Falstaff: “Olà …Oste! un’altra bottiglia”.

Un capitolo meritano anche i dolci. La corrispondenza con Opprandino Arrivabene è la fonte più ricca per testimoniare la golosità del Maestro e dell’amico nella incipiente vecchiaia. Sono frammenti che stralciamo da contesti molto più interessanti e importanti, artistici e politici soprattutto.

Si comincia nel maggio 1862 con l’invio di grissini a Londra, proprio mentre Verdi è in partenza per Parigi: “Caro Arrivabene, ieri sera ricevei con grata sorpresa i cressini, e te ne ringrazio assai assai. Peccato che non siano arrivati qualche giorno prima che allora avrei avuto il tempo di divorarli tutti. “E torna sull’argomento una volta giunto a Parigi. Nel 1864 sono delle cialde in arrivo a Sant’Agata. Il 13 dicembre è Verdi ad affermare categoricamente, dopo un invio di torroni: “Le mandorle non vanno pelate (scienza torronesca) me n’han detto anche il motivo, ma non me lo ricordo più”. Ma il 23 ecco altri torroni partire per casa Arrivabene direttamente da Cremona.

Il 5 aprile del 1865 è il cane Black a sgranocchiare in villa gli amaretti dell’amico “che sono veramente l’ottava meraviglia del mondo.” Il 13 marzo del 68 Verdi scrive: “Scrivimi cosa vuoi da Cremona. I torroni, la mostarda, ed il Torrazzo. Diavolo! Non vorrai già che ti mandi il Torrazzo in una lettera!” Arrivabene vorrebbe invece da Cremona dei biscotti, che il Maestro non riesce a trovare, ma non disperi perché ha messo i suoi cagnotti “ad ogni angolo della strada e se ne vedono passare anche uno solo sarà preso d’assalto e mandato a Firenze”, nuova capitale d’Italia dove l’amico fa il deputato. L’ultimo di quell’anno arriva a Genova un regalo: “Caro Arrivabene, Tu sei il re dei Trovatori!… la Peppina o quelli che si sono trovati ieri sera in casa mia all’arrivo del cestino si sono gettati come affamati su quel pan biscotto e ne hanno divorato fin troppo! Avevi proprio ragione di trovarlo buono, ed io non conoscevo alla porta della mia casa una cosa tanto preziosa”. Nel marzo 1871 è Verdi che va da lui: “Sono venuto espressamente a Firenze per portarti le scatole di fico”.

Nell’ottobre 73 Opprandino chiede a Verdi in un Post Scriptum: “Se tu sei a Sant’Agata avrai mangiato il sugolo: ma l’ho mangiato anch’io a Roma dove è sconosciuto. Vedi che io porto meco le vecchie usanze”. Il sugolo è il sugo d’uva, quel budino campagnolo di dolce mosto e farina, che oggi pochi fanno perché pochi pigiano in casa.

Il 10 aprile del 79: “Caro Verdi Buona Pasqua a te e alla Signora Peppina! Ma non magiare troppo agnello”. Il 14 aprile Arrivabene così conclude la sua lettera: “Ed ora passando ad un ordine di idee prosaicissimo aggiungo che da un paio di giorni sino i pomidoro (una delle pochissime cose bene riuscite quest’anno, mancante quasi interamente di frutta) hanno avuto la virtù di farmi pensare a te. La mia Perpetua dice che la migliore conserva che si vende a Roma viene da Parma! Che ci venissero da parecchi anni i tenori (Paganini, Gardoni, Calzolari, Noudin, Campanini, Barbaccini ecc.) io lo sapeva, ma per la conserva di pomodoro lo imparo ora. Per associazione d’idee io ti auguro di conservare te stesso non pomo, ma uomo d’oro, e di conservare a me, e chiudo la lettera perché viene a visitarmi un mio grande amico (dice lui) che non so chi sia. Addio”. Bella testimonianza della nascente fama della conserva di Parma.

Sotto Natale arriva a Genova un dono: “un canestrino con dentro un pezzo di roba doce” Era un “gelato di campagna”, una specie di torrone che Verdi trovò che “sarebbe squisitissimo se non fosse troppo profumato”. Per ricambiare ecco partire da Genova “una confutazione” costituita da frutta candita: “Caro Arrivabene, nemmeno per sogno ho voluto confutarti. Vivendo tra queste dolcezze non m’era mai accorto che Romanengo sapesse condire tanto squisitamente ogni sorta di frutta. Me lo dissero questa primavera alcuni di Parigi, a cui aveva mandato di quest’opere di Romanengo. Fatta questa scoperta ho voluto fartene parte. Ecco tutto”. Romanengo era pasticcere in Genova dove il Maestro fu visto più volte entrare nelle “offellerie” a comprare con la cugina Maria giovinetta dolci da lei scelti prima in vetrina.

L’ultimo spunto dolciario dell’Arrivabene è del dicembre 1881: “Carissimo Verdi, Che cosa sei andato a fare a Milano? A portarvi musica no, perché mi dici che non fai nulla. A scriverne? Non crederei, e a quanto pare, neppure a sentirne. Ma per lasciare il sole di Genova devi avere avuto qualche cosa di molto attraente. Sarebbe mai il panettone di Natale, che tu avessi voluto godere fresco, fresco? Eppure è forse migliore invecchiato alquanto. Basta: il fatto è che i giornali mi dicono che sei a Milano e ne godo perché questo mi prova che la Signora Peppina è guarita bene”. Non per il panettone era andato a Milano, ma per le segrete imprese del rifacimento di Simon Boccanegra e della nuova opera Otello.

Il panettone ci conduce a soffermarci su quello che ad ogni Natale Tito e Giulio Ricordi inviavano al Maestro. Era sempre un panettone “enorme di mole”, “immenso”, come scrive la Strepponi.

Quando cominciò la lunga gestazione di Otello, durata dal 1879 al 1887, il panettone dei Ricordi assunse il compito di farsi messaggio, allusione, sprone e augurio di pronto completamento dell’opera. In che modo? Rivestendolo di cioccolato, sormontandolo di figure, istoriandolo di scritte scherzose.

Cominciamo dal Natale 1880. Così Giuseppina scriveva al signor Giulio: “Se non l’abbiamo prima ringraziato, è che l’arrivo del Panettone, subì un sensibile ritardo. Quando entrò, cioè fu portato in casa, con tutta la maestà dovuta alla sua mole, noi avevamo già celebrato Natale ed anche digerito il pranzo. In tal serio caso, abbiamo pensato bene, di lasciarlo chiuso nella sua provvisoria abitazione, dalla quale escirà Sabbato 1° del 1881, attorniato dai suoi semplici sacchetti, gonfi di dolci. Grazie dunque a Lei, caro Giulio, a Papà ed a Mamma di queste dolcezze meneghine, eguali e forse superiori a quante dolcezze gastronomiche può offrire il paese del Creato più ghiottone.”

I sacchetti che lo contornavano contenevano dei dolci di cioccolato di forme ben chiaramente simboliche. C’era il sole, cioè Verdi stesso che illumina la vita anche del suo editore; c’era l’ancora, segno di salvezza per l’editore stesso; c’era la croce di Genova per significare la rielaborazione in corso del Simon Boccanegra doge genovese e c’era il leone, quello di San Marco, come dire Otello moro di Venezia.

L’anno dopo il panettone è davvero “magnifico”: sopra c’è un bambolotto di cioccolato, un piccolo moretto nudo, un Otello in miniatura. Ben presto tutti a tavola si accorgono che gli manca qualcosa fra le gambe, anzi mancano le gambe stesse. Ilarità generale! Ne riferirà Muzio a Tito: “Carissimo amico, abbiamo scoperto jeri sera che il tuo Otello è femmina, hanno dimenticato el maneg (il manico) come dice Porta credo. Ho detto al Maestro che tocca a lui farlo uomo, vestirlo ed alzarlo in piedi. Ho ragione?”

Passa un altro anno ed è ancora Muzio a raccontarci la vicenda: “Che bel paneton, e, proprio al momento di servire il dessert. Nella giornata il Maestro diceva non è ancora arrivato, ed io rispondeva arriverà. Ritornati da una passeggiata a casa: vedete non è giunto, la stessa risposta arriverà. Alle sette una tirata di campanello, il Maestro ed io esclamiamo il paneton, la Signora Pepina e De Amicis dicono di no; allora il Maestro ed io scommettiamo un soldo, ed il domestico annuncia la famosa cassa. Il Maestro la vede ed esclama c’è una statua; tutti diciamo è la statua d’Otello. Aperta la cassa con molta delicatezza, si pone il monstre in tavola; Verdi scioglie i nodi, leva il coperchio e si scopre mezzo Otello. Fu un grido di meraviglia, si bevve affinchè da qui ad un anno s’alzi in piedi ed abbia le gambe, ed io mi auguro di essere come in quest’anno presente alla grande cerimonia dell’Otello in ciocolata ed in musica”.

Passeranno invece altri 5 anni e più volte si ripeterà la scena del moretto, del cioccolatte, dell’Africano, come tra Maestro ed editore si continua a chiamare Otello.

Al dono del panettone che provoca spesso delle finte sfuriate verdiane, si affiancherà quello della colomba pasquale. Nell’aprile 1895 è Verdi a ringraziare così: “… è meglio che vi ringrazi della bellissima Oca che mangeremo oggi… Pardon! Pardon! Pardon! Grandemente Pardon! Ho scambiato una Colomba carica di pietre preziose in un’Oca!!! Apriti o terra! Quando mia moglie l’ha saputo … Dio liberi…”

Un breve cenno al pesce, che a Verdi doveva piacere perché se lo faceva inviare dal mare o glielo regalava il medico veneziano Cesare Vigna, come quella volta nell’utunno 1873 che arrivò una cassetta di ostriche e un involto di pesce chioggiotto. Da Sant’Agata il Maestro ringraziava: “Come t’avrà detto il telegrafo abbiamo ricevuto, mangiato e trovato buonissimo il pesce. Solo ne hai mandato una quantità tale che v’era pericolo che ti mandassi a prendere non per mangiare il pesce, ma per curare i disordini prodotti dal troppo mangiare”. E la spedizione di pesce Vigna l’aveva più volte ripetuta.

Uno squarcio di serena, conviviale serata in villa ci è fornito dall’Abbiati a cui lascio la parola. Era il 1884, il tempo che adagio adagio nasceva Otello e Verdi non amava parlarne. Discorsi a non finire, invece, sull’arte culinaria, chè Verdi, passata la settantina, pareva convalidare l’affermazione manzoniana, essere la gola quanto la vanità, un vizio che cresce con gli anni. Era stato Boito, una sera piena di stelle, a raccontare come l’elegante moralista francese Saint-Evremond – epicureo perfetto e posata inarrivabile – avesse invitato un amico, avanti lettera volterriano, a mangiare delle sogliole, ponendogli il quesito se le preferiva all’olio o al burro. E poichè l’amico stava al burro, Saint-Evremond s’era attenuto all’olio e aveva ordinato al cuoco di cucinare il pesce metà in un modo e metà nell’altro. Senonchè – concludeva Boito – non appena impartito l’ordine, il convitato di Saint-Evremond, presogli un attacco cardiaco, era morto sul colpo.

E Saint-Evremond non aveva perduto tempo, e affacciatosi ai fornelli aveva gridato: “Contrordine… tutte all’olio le sogliole!” Le gran risate che aveva accolto il raccontino e che il goloso Verdi senz’altro commentava: “Sì, un piatto di sogliole val bene un volterriano…!”. Tante altre testimonianze concordano nell’affermare che uno dei costanti gusti del Maestro fu proprio la buona tavola e la buona conversazione. Gli sentirono dire una volta: “Di privazioni ne ho abbastanza provate nei miei primi anni”. Ma l’avrà detto veramente? E saranno veramente verdiani i seguenti, raffinatissimi piatti che Alberto Cougnet trovò segnalati come prediletti dal Maestro? Segnalati da chi e dove non ci dice nel numero verdiano della Scena Illustrata (Novembre 1913): scaloppe deliziose d’astaco, fettine di gambero di mare per contorno ad una pietanza di maccheroni conditi con burro e parmigiano, nonché lamelle sottilissime di tartufi bianchi e saltati con pomodoro passato, uova affogate poste sopra un fondo di purea di funghi e di cipollette.

Il Dott. Vincenzo Lo Scalzo mi suggerisce la presenza di denominazioni verdiane nell’immenso repertorio internazionale del “Guide culinaire”, la cui prima edizione è del 1902. È questa forse un segno del rapporto tra il Verdi parigino e il mitico Escoffier e la sua scuola, nonché un omaggio alla riconosciuta raffinatezza del Maestro.

Vi troviamo: “Consommé Verdi”, che è un consommé ordinario guarnito a parte di polpettine in farcia di pollo, panna e un quinto di spinaci passati al burro, spolverate di parmigiano in burro fuso e fondo di cottura di vitello.

“Oeufs Verdi”, che sono delle uova “brouillés”, cioè leggermente strapazzate, al parmigiano con dadini di tartufo in stampi imburrati e foderati di lamelle di tartufo, per essere poi cotti a bagnomaria e serviti su toast fritti nel burro.

“Filets de sole Verdi”, filetti di sogliola posati su un letto di maccheroni conditi con panna e formaggio, polpa di astice e tartufi, coperti poi di salsa Mornay e glassati.

“Poulet sauté Verdi”, pollo saltato al burro e posto nel mezzo di un risotto alla piemontese, sul quale ultimo sono stese alternativamente fettine di fois gras e di tartufo. Da servire con una glassa di vino d’Asti ridotto e fondo bruno di vitello.

“Salade Aida”, insalata per metà di cicoria bianca riccia, per l’altra di pomodori pelati, fondi di carciofo crudi tagliati sottili, peperoncini sfilettati e bianco d’ovo a fettine, il tutto coperto di rosso d’ovo sodo reso a vermicelli attraverso un setaccio largo e condito con un po’ di mostarda.

Gli anni estremi, dopo la scomparsa di Giuseppina e la salute che va declinando vistosamente, sono ben tristi per una mente che resta lucida, vivace, interessata. Confessa: “La mano trema e lo scrivere m’affatica, come m’affatica il leggere, camminare e qualunquesiasi occupazione. Effetto di gioventù?” e “avrei bisogno di un pajo di gambe che trascinassero bene quest’inutile corpo… a qualunque prezzo”. “Mangio poco e non ingrasso. Dormo qualche notte bene, ma queste notti non sono frequenti”.

Ormai preferisce restarsene a Milano, nell’appartamento a lui riservato al Grand Hotel de Milan, da dove scrive, brontolone, alla cugina nel maggio 1898: “Carissima Maria, tutti i giorni dico a me stesso: Domani vado a S. Agata. Il domani dico la stessa cosa, e così quel domani non viene mai. Io ritardo il mio arrivo tanto più che qui non ho affari: non ho fattori che vogliano farmi credere quello che non credo; non ho il cuoco che mi fa mangiare male; non ho il cocchiere; non ho Guerino e diversi altri che mi inquietano. Le inquietudini materiali sono per me micidiali, insopportabili. Qui invece non ho affari che mi disturbano; non fattori, non cuoco che mi avvelena, ma buoni amici su cui posso contare, una cucina ricca e splendida, cento domestici che si mettono in quattro e non una parola di lamento con nessuno! Che ne dici? Non è meglio?”

Giovanni Cenzato, con la testimonianza di Umberto Bertolazzi che fu in Hotel il cameriere preferito dal Maestro, ci ha tramandato alcuni menù dei pranzi consumati, meglio sarebbe dire presentati, proposti, nei tempi di poco precedenti la sua scomparsa.

Il 28 settembre 1900, quando gli ottantasette anni stavano per scoccare: “Riso e fegatini – Trote all ’Olandese – Vitello in umido alla giardiniera – Lingua di bue – Cavoli di Bruxelles – Polli arrosto – Insalata – Crema versata – Pasticceria”.

Il 7 gennaio 1901, venti giorni esatti prima della morte: “Risotto alla certosina – Branzino bollito con maionese – Bue brasato – Costolette d’agnello – Carni alla parmigiana – Tacchino arrosto – Insalata – Dolce – Frutta – Gelato al rum” con tre o quattro qualità di vini, non escluso lo spumante nei giorni di ricorrenza.

L’ultimo menu è riprodotto in facsimile, porta in testa le iniziali di Giuseppe Verdi e comprende: “Julienne au croute – Truite grillèe à al maitre d’hotel – Aloyau de boeuf à la jardinière – Pain de Gibier – Asperges en brance – Dindoneau à la broche – Glace aux Framboise – Patisserie – Dessert”.

Reca la data del 20 gennaio, la vigilia del colpo apoplettico che in sette giorni lo condusse nel mondo dei più, là dove a lui fu certo riservato un posto tutto speciale, un posto alla tavola sfolgorante degli angeli cantori e musicanti. Non per nulla Filippo Tommaso Marinetti – sì, proprio quello del Futurismo – intitolò su un giornale parigino la cronaca dell’estrema trionfale cerimonia milanese “I funerali di un dio”.

Il 18 aprile 2001 al Grand Hôtel et de Milan si è tenuta da parte della Delegazione di Milano Internazionale dell’Accademia Italiana della Cucina una rivisitazione storica del menu servito nell’appartamento del Maestro il 20 gennaio 1901. La serata di gala era in onore del Presidente dell’Accademia Italiana della Cucina Conte Giovanni De Capnist e della Contessa Angiola. Ecco il testo della lista “rivisitata”:

Julienne al crostone (Zuppa primaverile di crosta gratinata). Trota alla griglia alla maître d’hotel (Trottoline alla graticola alla maître d’hôtel) Pane di caccia (Pane freddo di fagiano e cervo). Tacchino novello allo spiedo (Asticciole di dindo novello alla gelatina). Asparagi in mazzetto. Carrè di manzo alla Giardiniera. Gelato di lamponi. Dessert e pasticceria (Pudingo milanese alla Principessa Margherita, Petit four – Piccola pasticceria). Vini: Champagne – Bouzy Verzenay e Bouzy Brice, 100% Vino nebiolo – Torre della Sirena (Barriques) 1999, Conti Sertoli Salis. Vino di Marsala.