L’istoria del Salame di Felino

Author: Lodovico Gambara
Source:

Da “Parma nell’Arte” 1975-2, pp. 59-63.

Fra i più tradizionali prodotti destinati a deliziare il nostro stomaco, pochi sono indissolubilmente legati al nome del loro paese di origine come il salame di Felino; perfino il celeberrimo grana parmigiano ha fatto comunella con quello reggiano. Infatti non soltanto in Italia ma nelle principali metropoli o città d’oltralpe ed oltre oceano, a qualsiasi buongustaio non è ignoto il salame di Felino o di Fellino, di Filino o di San Felino, o ancora di «Castel Felino». E da quando? Compulsando i testi più recenti od aggiornati come la Gastronomia Parmense di Mastro Prosciutto o La cucina Parmigiana di Baldassarre Molossi, l’origine dell’arte di confezionare carni suine insaccate si perde nei secoli se non addirittura nei millenni. A Felino furono perfino scoperte (Rognoni) suppellettili nelle terremare di età neo-eneolitica, unitamente a residui ossei di porci o cinghiali, senza dubbio progenitori dell’odierno e incivilito «gozèn».

Non faremo superfluo sfoggio di erudizione citando ancora Strabone, Marziale o Polibio, ma ci accontenteremo di affermare che la macellazione suina era già largamente praticata dai colon romani fissatisi nella pianura padana nel 183 avanti Cristo, i cui prodotti servivano a vettovagliare le legioni che marciavano alla conquista del mondo. D’altronde non è affatto improbabile che avessero ritrovata già tale arte praticata dai loro predecessori, gli intelligenti ed evoluti Etruschi.

Socchiudendo lo sguardo, possiamo lasciar vagolare la fantasia ed immaginare come, a quei tempi, apparisse la nostra zona pedemontana: groppi collinari degradanti e susseguentesi, ammantati da una vegetazione di querce e quercioli, oppure da boscaglie di castagneti che fiancheggiavano e contenevano quei torrenti che sfociati nella pianura dilagavano in libero corso. Una strada pedemontana serpeggiava in questa pittoresca zona, ove si incontrava soltanto qualche casa colonica isolata o raggruppata in umili villaggi. Ancora l’Abate Stoppani la definì «La Svizzera del Parmense per la bellezza del luogo, vario, verdeggiante, incantevole». Ma in questa fattispecie di paradiso terrestre vi era di più e bene lo avevano apprezzato i nostri remoti progenitori: un clima ideale e salutare. Cedo in merito la parola a Lorenzo Molossi che così si espresse: «Un aere puro si respira in questi bei colli che si infiorano della graziosa filipendula, dell’enula campana e di molto giaggiolo … »; ed ancora: «Il clima temperato, raramente inquinato dalla nebbia, ed aerato dalle correnti d’aria incanalate nelle valli, fuori dalle paludi e dagli acquitrini della pianura, da tempo deve aver costituito un primo motivo di preferenza anche per la macellazione e la stagionatura delle carni conservate, consuetudini nate senza dubbio da un’esperienza acquisita da tempo immemorabile». A ciò aggiungevasi, specie in passato, l’abbondante disponibilità di ghiande, alimento particolarmente gradito sia dai porci selvatici che domestici, sostituite poi con la «zòta» di crusca, melgone ed altre brodaglie, comprese le lavature dei piatti. Certo si è che l’oasi felinese fu tra le prime, se non l’antesignana, ad essere prediletta, al punto che i maiali portati a vendere al suo mercato venivano pagati dagli acquirenti con qualche maggiorazione. A Felino si addizionarono man mano, nell’ulteriore sviluppo industriale, i paesi limitrofi; primo fra tutti Sala Baganza, la cui industria può forse vantare lo stesso titolo di anzianità di Felino (F. Botti), ragione per cui fra i due paesi si palesò sempre una certa animosità competitiva, un po’ puntigliosa nei mercati e nelle industrie. La denominazione di «salame di Felino» rimase comunque sempre accettata fino ad oggi, quale sinonimo di primato, tanto da essere preso a prestito volentieri da altri paesi quale emblema di provenienza, anche se a Felino i prodotti vi sono passati soltanto col camion, già confezionati e incassati: tempora mutantur.

Uno spettacolo truce ma pittoresco, che appartiene ormai solo alla memoria dei più anziani, era costituito dalla classica «mazzèda», oggi surrogata col vile colpo alla nuca adottato presso di noi per i suini, ma altrove anche per vittime di cervello superiore. Era un festoso evento domestico, una derivazione del rito con cui gli antichi pagani sacrificavano il porco castrato a Maja, madre di Mercurio. Fra i maiali domestici si alternarono nei secoli, il «gozén nigher», più prossimo al suo antenato porco selvatico; il «gozén fassè» ossia quello di varie razze italiane incrociate a bande bianche e nere, seguì il «gozén ingléss» con le orecchie diritte e gambe corte, per cui era distinguibile per la sua limitata statura; e infine il «gozén nostran» o di razza bianca, con ampie orecchie pendule e di grossa mole.

Durante la stagione rigida, se si chiedeva ad un felinese le novità del paese, rispondeva con sussiego: «i fratelli uccidono i fratelli, questa orrenda novella vi dò!». Oppure: «Felino è divenuto il regno dei mazzini e dei macellieri!». Od ancora: «A j’ ema molè (affilato) al coradòr!». Si iniziavano le corride. Il tranquillo paese echeggiava allora di strida strazianti. Il suino, appesantito dal grasso accumulato a seguito delle abbondanti razioni di pastone e della vita sedentaria, veniva proditoriamente uncinato col rampone sotto il mento e trascinato dal suo piscioso giaciglio sul luogo del supplizio, ove il carnefice con mossa fulminea gli vibrava la stilettata fatale. Sul caduto seguiva l’aspersione con acqua bollente onde poter raschiare le setole e lo strato corneo della cute. Avveniva talora che la vittima, solo tramortita, dopo tale getto scottante si rialzasse cercando ancora un ultimo scampo. Si verificava allora la fuga generale degli astanti, comprese le resdore con le «dgame» colme di sangue rutilante raccolto per i sanguinacci. Ma era un breve intermezzo, cui faceva seguito il definitivo squartamento dell’animale e la minuziosa, selettiva preparazione di tutti i pezzi da isolare o da insaccare; operazione, quest’ultima, paragonabile quasi alla composizione di un mosaico; in particolare nell’ allestimento del tipico salame di Felino.

Questo rito gastronomico si verificò in passato in tutte le case coloniche e in tutte le corti o cascine degli industriali locali. Le camere di stagionatura offrivano una visione incomparabile, da paragonarsi alla volta di una grotta infittita dalle stalattiti, soffuse di muffa verdognola. I Mazzén che esercitavano la loro arte da molte generazioni da padre in figlio, possedevano un olfatto portentoso; in un magazzino zeppo di salami annusavano i quattro punti cardinali e sapevano rintracciare con stupefacente esattezza un elemento avariato, meglio dei cani da trifola. Il salame felinese conquistò, si può dire, ogni mensa, povera o ricca, senza distinzione ed ad ogni palato fu gradito tanto «al salàm fresch’» che «al salàm vécc», ossia stagionato. I duchi Farnese, specie gli ultimi, affetti da enorme pinguedine e perciò emeriti mangiatori, ne furono conquistati; e così anche i Borboni lor successori, tanto che crearono il benemerito ministro Guglielmo Du Tillot «Marchese di Felino». La leggenda narra che questi avendo dovuto assumere, volente o nolente, tale titolo esclamasse «Voilà, je suis un marquis d’un pays des saucissons», non precisando se il sostantivo finale si riferisse al prodotto tipico del paese ovvero ai suoi… abitanti. Ma è altresì risaputo che alla sua mensa facesse, in particolare, largo uso del salame del suo feudo in uno con la sua affascinante amica, la bellissima marchesa Annetta Malaspina… Dicesi ancora che ne facesse larga propaganda nella nativa terra di Francia. Scorrendo le cronache e le grida di quell’epoca, si apprende come ancora in regime Napoleonico i maiali fossero allevati e macellati anche in città e ai primi dell’Ottocento risalgono i primi editti proibitivi di tal costume (Moreau de St. Mery).

A Parma rimase solo il lontano ricordo nelle denominazioni di «Borgo Salame» e di «Borgo Bondiola», attribuiti al fatto che ivi esistessero fabbriche di carne porcina salata e insaccata (G. Sitti); ma anche questa ultima reminiscenza scomparve col tempo e i due borghi sono oggi dedicati al poeta Angelo Mazza e all’architetto G. Francesco Zaccagni. Rimane ancora, (chissà come) «Borgo Felino»; la cui etimologia è peraltro assai remota quanto incerta.

Frattanto anche l’oasi felinese si è profondamente, se non felicemente, evoluta e i primitivi opifici di prodotti suini sono stati sostituiti da una trentina di moderni stabilimenti attrezzati ad uso industriale, talché «le pays des saucissons» si è allineato alle esigenze dei tempi…

Non ci è discaro ricordare, da ultimo, che il salame ha perfino ispirato la musa di vari poeti, specie dopo lieti simposi a base del medesimo e sarebbe biasimevole se codesta carrellata rievocativa non terminasse con qualche rima osannante all’insuperabile prodotto felinese.

Così l’Arcade Filandro Cretense (alias, il faceto conte Antonio Cerati) sciorinò nei suoi Opuscoli Diversi (1809) un’ode nell’occasione di un viaggio scherzevole nella casa del conte Bedulli, ave sbagliò scala e anziché entrare nel gabinetto da toilette imboccò la dispensa, trovandosi fra una piacevolissima collezione di salami. E l’Arcade così cantò:

«Caro Salame, a celebrar tuoi pregi

Non val mia Musa; di poeti egregi

Fian argomento. I Regi

Un Ordin faccian di «Cavalleria»

Ad onor tuo, e del Salame sia

Detta la «Compagnia»;

E al collo ciascun porti il tuo modello

Dipinto senza studio ad acquerello,

Chè il bello è sempre bello:

Io però credo non poter lodarti

Con più sincerità … che col mangiarti».