Il pesce d’acqua dolce nella tradizione parmigiana

Author: Guglielmo Capacchi
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Da G. CAPACCHI, La cucina popolare parmigiana, Parma, Silva, 1985, pp. 133-134

La pratica dell’allevamento di pesci in vasche o laghetti artificiali, con ogni probabilità è antichissima. I Romani dovettero praticarla in tempi assai remoti, dato che già Cicerone e Livio non possono più usare il puro e semplice termine piscina nel senso di «vasca per i pesci», ma ormai l’adoperano nel suo nuovo significato di «ampia vasca per l’esercizio del nuoto» (come nell’italiano di oggi); per i pesci, si adotta il termine generico di «vivaio» (vivarium), che resiste ancora ai nostri giorni. Proprio non saprei dire se i nostri vivai medioevali debbono la loro fortuna ad un fenomeno d’importazione latina, a pratiche già in uso presso i Cisalpini oppure ebbero vita grazie all’impulso di quel geniale politico ed amministratore che fu Carlo Magno[1] il quale «curò molto l’organizzazione di vivai per l’allevamento di lucci, anguille e carpe». Comunque stiano le cose, sappiamo che il Vescovo di Parma Sigefredo (o Sigifredo) II, nel 1005,aveva un proprio vivaio di pesci alimentato dall’acqua del Lorno, presso il suo castello colornese[2].

Così può dirsi di tutti i fossati che difendevano le mura dei nostri castelli di pianura: non contenevano draghi o altri mostri, ma carpe, lucci e tinche, tutti benvenuti nei momenti di carestia, o per variare il «menu». Durante tutto il medioevo continuano le testimonianze che documentano, sia pure a grandi linee, la pratica dell’allevamento ittico nella nostra zona, ma bisogna giungere al 1591, con la relazione del sig. Albertoni, mandato a Parma al seguito del Cardinale Odoardo Farnese, per sentire decantare le meraviglie di un allevamento di trote che suscitò l’ammirato stupore di tanti altri viaggiatori italiani e stranieri: «Parma … è più bella, più vaga e più dilettevole, ed in tutto il resto non inferiore a Piacenza… due cose ho notato in questa città a mio giudizio … assai meravigliose in quel paese: … una è la peschiera di trote in acqua viva e buona, tirata per condotti sotterranei di più d’otto miglia». L’altra, come è facile immaginare, è la celeberrima «aranciaia» protetta e riscaldata d’inverno, ed ora purtroppo andata anch’essa perduta.

Passarono i secoli, ma il Vescovo, (non vogliamo dire che fosse sempre spronato dal ricordo degli allevamenti dei suoi predecessori) non si limitò ad opporsi al Duca per la leva delle milizie nelle Corti Vescovili di Monchio: gli contrapponeva l’uso di trote iridate provenienti dal suo feudo montanaro dell’alta Val d’Enza e della Val Cedra; quelle non erano d’allevamento, diremmo oggi.

Giuseppe Micheli, nel suo studio La riserva delle trote per la Mensa Vescovile[3], fa la gustosa storia di questo privilegio diocesano rivendicato fino all’avvento di Napoleone, appoggiandosi al Cignolini e ad altri che non abbiamo citati nella bibliografia per non appesantirla eccessivamente.

C’era addirittura un Conservatore vescovile della pesca: nel 1768 era don Nicola Basetti di Vairo, preceduto dal monchiese Don Rozzi, dimissionario. E ancor oggi sono proprio gli allevamenti di trote nella nostra montagna che continuano in qualche modo l’antichissima, plurisecolare tradizione.

[1] G. MAFFIOLI, Storia piacevole della gastronomia, Milano, 1976, vol. I, p. 173.

[2] Pergamene dell’Archivio Capitolare; vedi anche I. Affò, Storia di Parma, vol. I, p. 382.

[3] Pubblicato in “La Giovane Montagna” del 1 dicembre 1927