La prima opera eseguita dal Correggio a Parma fu la decorazione a fresco di una camera dell’appartamento privato di Giovanna Piacenza, badessa del convento delle monache benedettine di San Paolo, oggi sinteticamente denominata Camera di San Paolo. Il lavoro fu realizzato presumibilmente nel 1518 o nel 1519 (non sono stati trovati documenti), e il suo significato simbolico, nonostante gli sforzi interpretativi di diversi valenti studiosi, resta ancora abbastanza ambiguo, così come non si hanno certezze, ma si possono formulare solo ipotesi, su chi preparò il dotto e criptico programma che il Correggio tradusse visivamente, su quanto l’artista mise di suo nella delineazione dello stesso e su chi suggerì l’impiego dell’Allegri a Giovanna Piacenza. Il risultato è comunque altissimo, sia per l’immagine pittorica complessiva, che non ha nulla da invidiare ai più celebri «studioli» realizzati nello stesso periodo, sia per le felici invenzioni, come quella dei putti che si intravedono dagli ovati aperti nella rigogliosa e festosa cupola di verzura; o come l’altra, dal taglio fotografico modernissimo, della Diana dipinta sul camino. «Una sovrana eleganza», ha scritto il Longhi, «tra intellettuale e arcadica, venatoria e conviviale di cui non è altro esempio paragonabile nel nostro Rinascimento. Né i camerini di Isabella né la stufetta del Bibbiena potrebbero stare al confronto»[1]. E se la Camera di San Paolo non ebbe imitazioni né particolari echi negli anni successivi, ciò è dovuto al fatto che subito dopo (1524) fu instaurata nel convento una strettissima clausura: per due secoli e mezzo nessuno, a eccezione ovviamente delle monache, poté più entrare nelle stupende stanze[2].
Il convento di San Paolo, in quel periodo, era per le religiose uno dei più ricchi e «alla moda» della città, insieme a quelli di Sant’Alessandro, San Quintino (dove dominava la famiglia Sanvitale) e Sant’Uldarico (famiglia Carissimi). Fondato alla fine del X secolo, fu esentato da Gregorio VII (1187) da ogni controllo vescovile; altri privilegi furono concessi da Federico II. Le badesse dei conventi erano allora nominate a vita e governavano come sovrane, scegliendosi gli amministratori, disponendo liberamente del patrimonio conventuale e delle entrate senza dover rendere conto ad alcuno, avendo potere giurisdizionale sulle persone soggette al monastero. In quello di San Paolo si susseguivano come badesse le appartenenti al casato dei Bergonzi. Cecilia, nel 1494, fece ricostruire parzialmente l’edificio e lo cinse di alte mura, imprimendovi in più parti il suo stemma e la scritta «Caecilia antistes nulli virtute secunda fecit, Bergonzae gloria magna Domus». Quando morì (1505) le successe Orsina, sua nipote: un governo breve ma sufficiente a far ristrutturare la chiesa e a dare incarico all’Araldi di dipingerne il coro. Il 25 aprile del 1507 anche Orsina scompariva e lo stesso giorno veniva nominata badessa Giovanna Piacenza, figlia di Marco – detto de’ Baroni e legato agli Sforza – e di madonna Agnese Bergonzi. Giovanna avrebbe prestato giuramento solenne il 24 maggio davanti a Niccolò da Bracciano, vescovo di Lidia. Ventottenne, di temperamento deciso, colta, resse per diciassette anni il San Paolo come una grande signora rinascimentale. Si capì subito di che stoffa fosse. Appena eletta, infatti, tolse l’amministrazione del monastero ai Garimberti per darla a suo cognato, Scipione Dalla Rosa (detto anche Montino dal cognome della madre), e scrisse al papa lamentando che parte dei beni del convento stesso (campi, vigne, armenti) era stata sottratta dai suoi nemici, cosicché il pontefice (28 agosto) nominava il protonotario canonico Bartolomeo Montini, zio di Scipione, e il vicario generale della diocesi Lattanzio Lalatta quali tutori del monastero. La defenestrazione dei Garimberti (seguaci dei Rossi di parte guelfa) dava origine a una serie di dispute coi Dalla Rosa (seguaci delle Tre Parti – Sanvitale, Pallavicina, da Correggio – che formavano il partito dei Ghibellini), che lo Smagliati[3] così incisivamente spiega: «Perché la Orsina Bergoncia havea arichiti gli Garimberti, hora la Zovana Piasenza, badesa, arichiva il Rosa suo cognato e questo, per invidia, era fra loro questione». Una tregua fra i contendenti veniva raggiunta all’inizio del 1510, ma non durava nemmeno sei mesi perché il 22 luglio «fu amazato il comisario dale tase regie Zan Francesco Garimberto e furon feriti 4 suoi famigli seco». Autore dell’omicidio era Scipione Dalla Rosa, che si trovava in compagnia di Cesare Piacenza, fratello di Giovanna. Scipione veniva bandito e solo quattro anni più tardi era riammesso in Parma con la stipulazione di una pace solenne con i Garimberti (5 aprile 1514).
Nel frattempo Giovanna aveva portato avanti il proprio progetto d’abbellire il convento, così da renderlo il migliore della città. All’Araldi[4] aveva riconfermato l’incarico di continuare gli affreschi del coro (terminati nel gennaio del 1510 e ora scomparsi), che prevedevano la rappresentazione dell’ultima cena, della cattura e della redenzione; mentre a Luchino Bianchino – che aveva rifatto le porte del Duomo e del Battistero e che in Duomo, nel coro, aveva anche completato l’opera dei Lendinara – erano commissionati gli stalli corali, che ora si trovano all’Oratorio dei Rossi e nei quali è incisa la scritta «Lucinus Blanchinus Parmen. Ioanna Placentia Abbat. moderante MDX». Per se stessa Giovanna aveva pensato di fare costruire un grande appartamento, affidandone il progetto all’architetto Giorgio da Erba, lo stesso che aveva disegnato il palazzetto Eucherio Sanvitale nel quale si alternano, come in quello della badessa, camere con tre lunette per parete, che si concludono con una volta piatta, e altre con quattro lunette per parete suddivise da leggeri costoloni, che salgono fino alla chiave di volta come le stecche di un ombrello.
Nel 1514 la costruzione della nuova residenza era terminata. Essa si componeva[5] di sei stanze: un salone di dieci metri per venti, al quale si accedeva dall’esterno, seguito da due camere, affidate poi per la decorazione rispettivamente all’Araldi e al Correggio; dall’ultima camera si passava in un piccolo gabinetto con il soffitto ligneo (vi dormiva la domestica privata di Giovanna); da qui al camerino stanza da letto della stessa badessa e, infine, in un’ altra cella, usata come cappella privata della superiora, che comunicava pure con la stanza correggesca. L’Affò ricorda che a lato del salone (ai suoi tempi adibito a refettorio), delle due stanze e dell’oratorio correva un porticato di colonne in pietra di Serravalle, scolpite da Francesco d’Agrate, con lo stemma dei Piacenza (tre lune falcate). Vari motti erano impressi sulle porte o sui camini. […].
Non appena completata la parte muraria, la badessa dava incarico ad Alessandro Araldi, l’artista migliore e più pagato in quel momento sulla piazza parmense, di affrescare la prima stanza subito dopo il salone secondo un programma di cui si è perso l’autentico significato. Una dotta interpretazione ne è stata fornita da Giuseppa Zanichelli, secondo la quale «le dodici lunette e i corrispondenti riquadri e ovatini della volta rappresentano altrettante tappe che portano al Concilium degli dei, al refrigerium del Salmista, alla vittoria finale: il cammino si è svolto in due dimensioni, quella temporale, scandita dagli exempla profani, eppur imbevuti di mistica religiosità, e quella eterna, ritmata dal succedersi degli eventi biblici, ormai fuori dalla storia, proiettati sulla volta della stanza, simbolo dell’atemporalità della volta celeste; il viaggio terreno della badessa, così legato alle vicende che sconvolsero la città di Parma tra il 1507 ed il 1514, si è concluso con la vittoria sui suoi nemici e l’iscrizione sul camino, “transimus per ignem et aquam et eduxisti nos in refrigerium”, suggella l’orgogliosa certezza del trionfo; ma il viaggio spirituale che ogni fedele deve compiere resta aperto: il drago, custode dell’acqua della vita, con il suo movimento circolare si ricollega al pozzo della Samaritana ad indicare la via che attraverso la Pietas, la Castitas, la Veritas conduce alla Sanctitas e che ogni uomo deve percorrere con la mente e col cuore: il porsi con l’aiuto di Dio sotto la protezione di San Benedetto e di San Paolo, fornisce all’anima penitente la garanzia della sicura vittoria»[6].
Terminata la prima stanza, restava da dipingere la seconda: ed ecco apparire Antonio Allegri da Correggio. […] Il Correggio dovette affrontare due problemi: il collegamento con la stanza precedente e la struttura di una camera a tipologia ancora goticheggiante, con quelle sottili nervature che solcano la volta. Risolse il primo quesito insieme a quei personaggi eruditi che frequentavano la badessa; quanto al secondo, toccò a lui solo provvedervi, ed egli lo fece in modo magistrale, dimostrando di avere già nella mente l’idea di uno spazio pittorico che non doveva necessariamente collimare con quello architettonico, anche se in quel momento ancora lo assecondava. L’Araldi si era trovato di fronte a un soffitto piatto e l’aveva riempito di grottesche «all’antica», usando motivi classici ma con inflessioni goticheggianti, e aprendo al centro un oculo con dei putti riecheggiante, pur con minore spessore, la trovata del Mantegna per la Camera degli sposi di Mantova. Anche il Correggio, se vogliamo, si rifà a un soggetto mantegnesco, quello della cappella funeraria nella chiesa di Sant’Andrea a Mantova, ma lo rielabora con ben altra fantasia e gusto estetico. L’idea di un rigido intreccio di vimini come supporto a ghirlande di frutta e verzura è qui raccolta e trasformata in un felice trionfo architettonico del verde, con festosi «pendenti» di grandi mazzi di frutta. Due leggere canne salgono verso il soffitto in sintonia con le nervature, smussandone l’angolosa asperità, e il folto fogliame che esce dagli intrecci romboidali attutisce la curvatura dei sedici spicchi, dando all’insieme un senso di maggiore fusione che trova un coronamento nel fitto intreccio dei nastri, congiunti alla sommità in una rosea ghirlanda disposta intorno al dorato stemma con le tre lune falcate, insegna del casato di Giovanna. E nel verde che avvolge come una cupola la stanza, ecco aprirsi verso il cielo sedici oculi da cui si intravedono carnosi putti dai capelli dorati e dal simpatico sorriso, «sorpresi» nei più diversi atteggiamenti. A ogni ovato, incorniciato da una ghirlanda, corrisponde più in basso una lunetta monocroma in cui appare, come scolpito, un soggetto mitologico; ogni lunetta è incorniciata da un arco di conchiglie che poggia su capitelli pensili, sorretti da teste d’ariete dalle cui corna a spirale cadono file di pietre preziose, perle, ambre; tra l’una e l’altra testa si stendono strisce di tela che trattengono piatti, vasi, brocche e una piccola scure: nature morte che qualche studioso ha definito oggetti da tinello, ponendole in relazione alle funzioni che avrebbe dovuto svolgere la stanza; altri critici, invece, vi hanno visto oggetti sacrificali. Sulla cappa trapezoidale dei camino il Correggio ha dipinto Diana sul cocchio trainato da due cerve, delle quali si intravedono, con ardita impaginazione, solo le zampe posteriori. L’immagine sembra presa da Callimaco, che cantò: «O Partenia Diana, o domatrice / Di Tizio, tu la fascia, e l’armi d’oro / E d’oro avevi il cocchio, e tu mettesti, / O Dea, pur d’oro alle tue cerve i freni». La dea indossa un abito bianco a pieghe strette e fitte, ha sulle spalle la faretra con le frecce e l’arco dorato, e sul capo, fissata da una perla, la mezzaluna, mentre col braccio sinistro sostiene un drappo azzurro: ottimo espediente scenografico per bilanciare cromaticamente lo spazio in cui la figura è inserita, e nel contempo allusione allo spazio celeste.
[1] R. LONGHI, Il Correggio e la Camera di San Paolo, Genova, 1965, p. 23.
[2] Sulla storia del monastero e la riscoperta degli affreschi correggeschi vedi I. AFFò, Ragionamento del padre Ireneo Affò sopra una stanza dipinta del celeberrimo Antonio Allegri da Correggio nel monastero di San Paolo in Parma, Parma, 1794, ripubblicato in F. Barocelli in Il Correggio e la Camera di San Paolo, Milano, 1988, pp. 37-62.
[3] S. DI NOTO, Leone Smagliati, Cronaca parmense (1494-1518), Parma, 1970, p. 140.
[4] S. DI NOTO, Leone Smagliati, Cronaca parmense (1494-1518), Parma, 1970, p. 140.
[5] Una ricostruzione dell’appartamento e delle sue vicende è stata fatta da P. Catellani, Lo smembramento del San Paolo e un inaudito progetto per la Camera, in “Parma per l’Arte”, 1974, II, pp. 75-88.
[6] G. ZANICHELLI, Iconologia della Camera di Alessandro Araldi nel monastero di San Paolo in Parma, Parma, 1979, p. 57.