Il commercio del sale già nel Medioevo era sottoposto ad una tassa del Comune che, come si legge nella Chronica di Fra’ Salimbene de Adam, nel 1277 iniziò la costruzione della Dogana del sale[1], situata all’angolo dell’odierno borgo San Vitale, ove tuttora rimane, a memoria, il toponimo di borgo della Salina. Si pensa che proprio l’umidità del sale sia tra le cause principali del cedimento e del crollo della Torre civica avvenuti nel 1609, a cui erano addossati i depositi comunali e che portarono alla ricostruzione del palazzo nelle forme attuali.
Parma, a differenza di altri territori, poteva rifornirsi di sale grazie ai pozzi di acqua salata della zona di Salsomaggiore, molti dei quali di proprietà del Comune, che intorno agli anni Trenta dell’Ottocento producevano 12.300 quintali di sale[2].
Queste acque, imprigionate nel sottosuolo quando il mare che colmava la pianura padana si ritirò, erano conosciute già dai Celti e dai Romani che ne estraevano il sale[3]. Prima dell’avvento del frigorifero il sale rappresentava il principale mezzo di conservazione tanto da cominciare a salare il formaggio, il burro, il pesce e le carni. Da questo si può ben capire l’origine della parola “salume” e come la presenza dei giacimenti di Salsomaggiore sia stata fondamentale per lo sviluppo dell’economia alimentare del territorio parmense.
Il sale di questo territorio veniva preferito a quello marino per l’abbondanza di iodio, bromo, zolfo che avevano la capacità, soprattutto lo iodio e il bromo, di bloccare lo sviluppo dei batteri e favorire, quindi, la conservazione delle carni. L’utilizzo di questo particolare tipo di sale, ha indubbiamente aiutato il lavoro dei primi norcini che ottenendo buoni risultati, saranno stati invogliati a diminuire pian piano le quantità di sale, “inventando”, inconsapevoli, il “Parma”, quello dolce[4].
Il sale appare quindi un elemento indispensabile alla vita, tanto prezioso che veniva utilizzato come moneta di scambio (da cui la parola romana “salario”). Per questo motivo la storia per il controllo delle zone di Salsomaggiore fu veramente “vivace”. Come si diceva furono i Galli Celelati a insediarsi per primi e qui vi rimasero fino alla sottomissione ai coloni Romani, che crearono un insediamento sul monte Castellazzo per difendere le saline e continuare l’estrazione che si protrasse fino al 589 quando vennero distrutte da frane e terremoti. Il ripristino è datato 789 e Carlo Magno, considerando il valore che aveva il sale, nell’801 concesse ai lavoratori dei giacimenti particolari esenzioni e privilegi per l’estrazione del prezioso alimento. Donò poi alla Chiesa di Borgo San Donnino (oggi Fidenza) i pozzi salsesi, che passarono successivamente al Vescovo di Parma e a quello di Piacenza[5].
Per l’assoluta importanza strategica di questa attività, che rendeva autonomo il Parmense dalle saline costiere, a difesa dei pozzi nel Medioevo vennero eretti diversi castelli, come quello di Scipione nel parmense, detto anche “castello del sale”.
Nella storia delle saline di Salso, ebbero un ruolo fondamentale i marchesi Pallavicino, tra i maggiori produttori di sale che ne controllavano il commercio in una zona vastissima, da cui ricavarono gran parte delle loro ricchezze. Nel 1270 i comuni di Parma e Piacenza obbligarono i marchesi di Scipione a fornire mensilmente una certa quantità di sale a prezzo inferiore rispetto a quello di mercato in cambio del quale i Pallavicino ottennero per sé e per i propri uomini l’esonero dal pagamento di tutte le imposte reali e personali. Analoghi accordi furono fatti con i Visconti, poi con gli Sforza. Documenti del XVIII secolo provano che anche a distanza di secoli gli ultimi discendenti di Manfredo Pallavicino continuavano a godere di tali privilegi.
Una lunga diatriba giudiziaria, che vide opporsi il Comune di Parma e i Pallavicino per il possesso di una serie di pozzi ubicati tra Scipione, Salsomaggiore, Salsominore e Tabiano, si concluse nel 1318 a favore del Comune.
Con la costituzione nel 1545 del ducato di Parma e Piacenza, retto dalla potente famiglia Farnese, il territorio passò sotto la proprietà della Camera Ducale e con questo le preziose saline.
Anche nel XVII secolo i Farnese introdussero nuovi sistemi per estrarre le acque dal sottosuolo attraverso impianti che sono ancora visibili a Salsomaggiore.
La proprietà passò poi ai Borbone, succeduti alla guida del Ducato, e, dal 1816 al 1847 a Maria Luigia. Dopo la nuova, breve parentesi borbonica, con l’annessione del Ducato al Regno d’Italia le acque salse nel 1860 confluirono nel Demanio Pubblico, che le ha amministrate fino ai nostri giorni[6].
[1] SALIMBENE DE ADAM, La Cronaca, versione di G. Tonna, Milano Garzanti, 1968, pp. 359-360.
[2] MOLOSSI L., Vocabolario topografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma, Tip. Ducale, 1832-34, pp. 471-474.
[3] Dai pozzi si estraeva con i secchi una fanghiglia limacciosa (la “moja”) che veniva depurata e messa a bollire in larghe pentole di ferro poste sul fuoco di legna. Per secoli si praticò in questo modo, per evaporazione, l’estrazione del sale dalle acque sotterranee.
[4] DALL’OLIO E., Il Prosciutto di Parma, Parma, Agenzia 78, 1989, pp. 24-28.
[5] Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Milano, Silvana Editoriale, 2006, pp. 276-277.
[6] FORNASARI M., Le acque “salse” e l’industria dei salumi, in www.museidelcibo.it